Prima di affrontare il tema dei voucher è necessario uscire da un equivoco spesso basato sull’ideologia: i voucher non sono dannosi in sè e per sè, non sono il male a prescindere: dipende, come sempre, da come vengono usati.
Nascendo infatti come strumento per regolare il lavoro occasionale sono particolarmente adeguati e, come tali, sono impiegati in altri paesi europei, per piccoli lavoretti che non hanno una continuità e non si trovano nel contesto di una stabile organizzazione o peggio ancora in quello di una produzione o scambio di beni o servizi.Perché è proprio qui che, a un certo punto, scatta il potenziale o probabile abuso. Se, infatti, il sistema dei voucher non ha dei paletti, la tentazione di usarli come strumento sostitutivo di altre forme di lavoro occasionale è facile, rischiando, ad esempio, di permettere che il lavoratore a voucher sia sostanzialmente un lavoratore con contratto di somministrazione ma meno pagato.
Una via di fuga rispetto a un contratto che già esiste.
Gli esempi nel merito potrebbero continuare, ma, per non farla lunga, potrebbe essere opportuno pensare di limitare i voucher ai settori dei servizi alla persona o alle organizzazioni senza scopo di lucro, il che significa escludere le imprese anche agricole. E. magari, perché no, pensare anche di applicarli a obiettivi precisi destinandoli, ad esempio, ai disoccupati e agli occupati a basso reddito facendone uno strumento di politica attiva del lavoro..
Come farlo? Da un lato si potrebbe pensare di attingere ad altre esperienze europee, vedasi ad esempio il contesto belga, francesce o tedesco, dall’altro sarebbe opportuno confrontarsi con chi li usa. Infatti, una volta abrogati gli articoli che permettevano l’uso dei buoni lavoro in Italia, per capire come meglio regolamentarli sarebbe opportuno parlare con chi ne fa uso e ha esperienza in merito per poi farne tesoro e sintesi. Soprattutto dopo aver agito d’urgenza con un decreto per evitare un referendum a rischio sconfitta, sarebbe il caso d’incontrare chi su quel tema aveva qualcosa da dire e cercare un confronto sia sociale sia politico sul’argomento. Soprattutto in presenza di una proposta in merito. Senza contare, volendo, le proposte di legge popolare da cui eventualmente attingere.
Intendiamoci, intervenire per colmare un vuoto di legge regalando una disciplina normativa a un settore che non ce l’ha è importante e obbligatorio. Se poi si riesce a farlo anche migliorando e magari, anche considerando che la legge Biagi che prevedeva l’introduzione dei voucher è del 2003, aggiornando lo strumento in sè.
Come ci si arriva? Il metodo non è secondario, anche visto il percorso che ci ha portato fin qui, non esattamente lineare. Si pongono, prima di tutto, due alternative, il confronto vs lo strappo, soprattutto con gli interessati, le parti sociali, con i sindacati, che, parlando di lavoro, sarebbero l’interlocutore naturale, ancor più quando uno di essi ha promosso un referendum sul tema. Ascolto e confronto sono due strumenti necessari a qualsiasi governo. Certo, reintrodurre regole in materia di buoni lavoro è una cosa logica e anzi normale ma non è l’unico aspetto rilevante in una situazione in cui il metodo vale almeno quanto il merito.
Ci si può chiedere infatti qual è la strada che si vuole seguire un interrogativo che vale per il governo sia per il PD, su quali temi si vuole investire e basare la propria proposta politica perché spetta a proprio soggetti come un partito e un governo cercare un confronto più ampio possibile. Si chiama rappresentare, si chiama fiducia. che non è tanto quella che si appone su un provvedimento in discussione in Parlamento ma quella di cittadini ed elettori. A partire da quel milione che ha sottoscritto il referendum sui voucher che non può essere meno rilevante degli 1,8 milioni che hanno votato alle primarie e che posto un tema su un tavolo che andrebbe sviluppato e ampliato per tutto il PD e non solo per la così detta “sinistradem” che pure da questi temi dovrebbe ripartire come fondamento della propria azione politica.